Mai come quest’anno l’Appiani in Festa ha assunto un significato fondamentale, che si è fortemente riverberato nel suo nome. Nel suo richiamo al glorioso impianto che ha ospitato il Padova fino al 1994 e che ha reso Padova, il Padova e i suoi tifosi un tutt’uno. Di certo in pochi potevano soltanto lontanamente immaginare che l’avvento del nuovo stadio, l’Euganeo – inaugurato l’anno del ritorno in Serie A – avrebbe coinciso con una mazzata quasi mortifera, soprattutto a lungo andare, per i supporter veneti e soprattutto per il legame tra la città e il club biancoscudato. Le ultime vicende, che hanno riguardato la pantomima circa l’apertura della nuova Curva Sud – teoricamente finita da diverso tempo ma la cui inaugurazione è stata rimandata diverse volte a causa di problemi burocratici con le ditte di appalto e l’aumento dei costi delle stesse nel post Covid – hanno definitivamente disilluso un ambiente già di suo scarico e sfiduciato, tanto che da questa stagione ultras e club, attraverso un comunicato, hanno fatto sapere che non presenzieranno tra le mura “amiche”, né tantomeno sottoscriveranno abbonamenti. Un messaggio chiaro e forte a politica e istituzioni locali, ma anche al club.
Nell’unica giornata di festa organizzata dagli ultras patavini, per discutere della situazione e sottolineare sia i passaggi storici che i motivi contingenti che hanno portato a una simile decisione, sono saliti sul palco vecchie e nuove facce del tifo organizzato, Massimo Pegoraro (memoria storica del Calcio Padova e del suo tifo), Andrea Antonioli (Rivista Contrasti) e io stesso (in rappresentanza di Sport People), all’interno del dibattito “Da Via Carducci a Viale Nereo Rocco – Storia di un esilio”. Ovviamente si è sottolineato come per un tifoso, la scelta di disertare i match casalinghi, sia un qualcosa di estremo e triste. Figlio della frustrazione ma anche della voglia di dare un segnale netto e rammentare a tutti quanto l’Euganeo sia stato dannoso e foriero di sventure, cominciando proprio dagli ultras che, progressivamente, si sono visti costretti ad abbandonare la Curva Sud – che già nei primi anni veniva chiusa in inverno per ovviare al problema neve e ghiaccio – e spostarsi in tribuna. La totale contrapposizione tra la bellezza mozzafiato di una città come Padova e l’obbrobriosità estrema del suo stadio testimonia come, con il tempo, il sodalizio biancoscudato sia stato messo ai margini del tessuto cittadino. Divenuto periferico non solo da un punto di vista logistico, ma anche percettivo e ideale.
Chiaro che per molti, il sogno resta quello di un trasferimento al Plebiscito, altro impianto cittadino utilizzato dal rugby – e molto più raccolto e a misura d’uomo -, praticamente a un soffio dal divenire la casa del Padova sotto la giunta Bitonci, ormai una decina di anni fa. Un sogno svanito nel momento in cui cambiò l’amministrazione comunale e che oggi, tuttavia, sembra un progetto lontano e irrealizzabile, almeno per il disinteresse dimostrato dai vari establishment cittadini. Ecco perché l’unica àncora per una minima salvezza è rappresentata da quella Curva Sud che, attualmente, si incastona perfettamente nei casi di mala burocrazia italiani. Un’opera incompiuta che grida vendetta e che vede lievitare i suoi costi con il passare del tempo e lo stallo delle attività. Ciò che preoccupa, ma ciò che ha caratterizzato l’Euganeo sin dai suoi primi giorni, è il totale disinteresse per esso e i suoi “effetti”. A voler pensar male, sembra quasi che, a correnti alterne, ci sia stata una volontà di liberarsi di un tratto identificativo per Padova, come la sua squadra di calcio e i suoi tifosi. Non va mai dimenticato che l’attuale stadio, senza l’impegno degli ultras che negli anni si sono adoperati a costruire lo spazio aggregativo della Favelas, sarebbe persino privo di un bar!
Ovviamente la problematica stadio a Padova – sebbene sia gigante e ben al di sopra anche di situazioni simili – ricalca il momento storico italiano in cui si parla sempre più spesso di stadi di proprietà e rinnovamento degli impianti sportivi. Ma a che prezzo? Se nella veste di tifosi è sacrosanto pretendere spazi nuovi e più a misura d’uomo, dall’altro bisogna sempre tenere alta l’asticella dell’attenzione sulle modalità con le quali suddetti cambiamenti vengono o verrebbero espletati. Il modello Juventus – che, è vero, può essere un unicum per molteplici ragioni – ci insegna che la trasformazione del tifoso folkloristico e passionale in cliente, per giunta represso e bandito nei suoi aspetti più “estremi”, non è soltanto distopia ma realtà. Pertanto a Padova, come altrove, non bisogna dimenticare che la prima funzione di uno stadio dev’essere quella aggregativa e bisogna sempre spingere per difendere il proprio spazio, in questo caso quello destinato al tifo libero. Non istituzionalizzato, né burocratizzato. L’esempio di quanto avviene nei Paesi germanofoni o in quelli scandinavi – benché distanti da noi culturalmente e anche operativamente – andrebbe sempre preso in considerazione: in stadi dove esistono anche centri commerciali e negozi (che, ok, a chi ragiona a una certa maniera ovviamente non piacciono) non è mai stato interdetto il luogo deputato al tifo organizzato. Anzi, negli anni questo è stato difeso e implementato anche grazie al sapere interagire (e protestare in talune situazioni) da parte dei tifosi e degli ultras stessi. Ovviamente ogni Paese e ogni cultura ha un suo retroterra e dei suoi modus operandi profondamente radicati. Retaggi che non permettono talvolta di copiare il meglio ma spingono a emulare il “peggio”. Quindi la repressione e l’esclusione della frangia più calda. Ecco perché bisogna averne coscienza.
Il messaggio, dunque, che deve lasciare la serata dell’Appiani in Festa, è che questo gesto d’amore estremo fatto dai tifosi del Padova, non può e non deve cadere inascoltato. Ma va interpretato, da parte di istituzioni politiche e calcistiche, come la potenziale perdita di un pezzo della città e del pallone. Sicuramente quello più autentico. Altresì rimane vergognosa e ormai intollerabile la situazione che si trascina da anni attorno all’impianto di Viale Nereo Rocco. Tanto che qualsiasi persona normodotata e in buona fede non può far altro che sposare la battaglia intrapresa dai supporter veneti. A guardare la Basilica di Sant’Antonio da ciò che resta del vecchio Appiani, viene molta nostalgia. E non solo nostalgia del calcio che fu, ma anche dell’Italia rispettosa della propria storia e delle proprie tradizioni. Oggi tutto va più di fretta e difendere un sentimento o un credo sembra quasi essere una cosa di cui vergognarsi. Qualcosa di vecchio, passato, anacronistico. E invece solo da qua si può ripartire. Anche perché quando non ti chiami Roma, Milano, Napoli o Torino, non puoi certo contare sul continuo ricambio e l’unico humus da gettare in terra per far germogliare la passione e le nuove generazioni, è quello rappresentato dalle curve. Hanno ragione i padovani e ce l’avranno finché non verranno smentiti con il minimo sindacale: uno stadio degno per il calcio e per la storia della città dei “tre senza”.
Simone Meloni per Sport People