Partiamo da due assiomi: 1) La Juventus Under 23 era un osso durissimo; 2) ai playoff bisogna dimenticarsi che esistano partite facili, non perché piaccia parlare o scrivere per frasi fatte, ma perché effettivamente è così. È una storia nuova, tutto quello che è stato fatto prima
si azzera, o quasi. E gli esempi sono innumerevoli, a tutte le latitudini. Anzi, dirò di più: al momento del sorteggio dei quarti l’abbinamento uscito mi aveva messo i brividi. Immaginavo esattamente le difficoltà che il doppio impegno ha palesato poi sul campo in tutta la sua evidenza. A chi definisce la Juventus una squadra di ragazzini rispondo che in diversi di questi a breve giocheranno in Serie A e che i cosiddetti ragazzini avevano eliminato Piacenza, Pro Vercelli e Renate, la quarta forza del campionato. Insomma, un avversario più che degno, superato con una partita (quella d’andata) ben giocata a dispetto delle critiche ricevute e un’altra (quella di ritorno) decisamente meno brillante, anche se non del tutto negativa.
Luci e ombre, dunque, della serata delll’Euganeo, pregi e difetti che si mescolano e che si intrecciano in un mix che produce lo stesso risultato dell’andata a parti invertite, con il fattore campo che salta due volte. Luci, si diceva: una difesa che regge l’urto con Ajeti punto fermo e leader e con un Valentini entrato in un tesissimo finale che ha dimostrato ancora una volta l’insensatezza della sua gestione nella passata stagione e nella prima parte dell’attuale, un Germano versione extralusso che piazza un recupero prodigioso che vale la qualificazione, un Chiricò scoppiettante che promette scintille. Ma anche ombre: un attacco asfittico che, da quando Massimo Oddo è sulla panchina biancoscudata, ha prodotto un solo gol fra tutti i centravanti della rosa, Un aspetto che preoccupa, per una squadra che vuole salire di categoria. Un solo gol, si diceva: quello segnato da Ceravolo al Piacenza partendo dalla panchina. Per il resto scena muta collettiva, dall’impalpabile Santini, a Nicastro, per non parlare di Cissè, su cui non si può più contare nemmeno in parte per i cronici problemi di pubalgia che lo mettono definitivamente fuori dai giochi. Il che rende ancora più sconcertante la decisione di allungargli il contratto (sia pure a cifre dimezzate) e quella di cedere Tommaso Biasci a gennaio. Come si poteva intuire, Biasci non era un brocco o un flop, ma la sua gestione, partendo da direttore sportivo (Sogliano), per finire ai due allenatori (Mandorlini e Pavanel) grida ancora vendetta. Ora lo si ritroverà dall’altra parte della barricata, completamente rigenerato dalla cura Vivarini e dalla presenza di un altro primattore (Iemmello) al suo fianco. Altre ombre: le assenze di Ronaldo, Jelenic e Bifulco, tre pedine fondamentali dello scacchiere biancoscudato, che si spera di recuperare al più presto.
In conclusione: il Padova non è una squadra senza difetti, ma neppure le altre tre contendenti sono immuni da pecche nella costruzione e nell’assemblaggio dell’organico. I biancoscudati non sono imbattibili, ma non lo sono neppure le tre avversarie rimaste in lizza. Il Padova, questo Padova, ha anche tanti punti di forza e giocatori che possono spostare gli equilibri. Se la giocherà col Catanzaro, un avversario attrezzato e con singoli importanti (Cinelli, Sounas, Maldonado, Bombagi, Cianci, Vandeputte, Biasci, Iemmello, Martinelli) e ha chance concrete e intatte di raggiungere la finale.
P.S. il tanto vituperato girone A ha prodotto, nell’ordine: 1) il record di punti (90) e del minor numero di gol subiti (9) del Südtirol; 2) la vincitrice della Coppa Italia (il Padova) in finale contro un’avversaria dello stesso raggruppamento (sempre il Südtirol); 3) due semifinaliste (Feralpisalò e Padova) sulle quattro rimaste in lizza. Era davvero un girone così scarso?