Non è l’anno zero ma è come se lo fosse. Siamo a inizio giugno e a Padova abbiamo già una direzione chiara: un nuovo presidente, un organigramma chiaro e un direttore generale confermato, una mossa che condivido pienamente. La svolta è stata storica, perché il ridimensionamento delle quote azionarie in possesso di Giuseppe Bergamin e l’uscita di scena di Massimo Poliero, unite alla salita sul ponte di comando di Roberto Bonetto rappresentano la fine di un capitolo di un libro di 107 pagine. Ce ne saranno altri, si spera belli e appassionanti, oltre che carichi di sentimento e di capacità dietro la scrivania. A qualche giorno dalle conferenze stampa dei due soci storici, che nel 2014 rifondarono il Calcio Padova finito nella polvere a causa della dissennata gestione di Marcello Cestaro, con colpo di grazia inferto da Diego Penocchio, si possono ragionevolmente tirare le prime somme. I tifosi, quelli organizzati e non, hanno ringraziato Bergamin per tre anni indimenticabili e per una presidenza impeccabile, quello che sarebbe sempre servito in passato per non dilapidare un patrimonio inestimabile. Non ci sono troppe parole da aggiungere per l’ormai ex numero uno di viale Rocco, che (aspetto molto importante a parere di chi scrive) rimane comunque azionista di minoranza e che, pur riducendo il suo impegno, non sarà più presidente. In certi momenti basta un semplice “grazie”, per riconoscere quanto di buono fatto in tre anni di gestione condivisa (più di qualche volta a fatica) con Roberto Bonetto. Chi ci sarebbero stati screzi era facilmente preventivabile, che si voglia a tutti i costi tentare di dire che da una parte c’era il buono e dall’altra il cattivo onestamente non lo riesco a capire.
Secondo i fatti noti, Bergamin e Bonetto sono stati gli unici due a raccogliere dalle ceneri il Padova, dimostrando che non era vera la favoletta del “senza Cestaro il nulla”. Senza Cestaro ecco cosa c’è: due imprenditori che per tre anni hanno ottenuto una promozione immediata dalla D alla Lega Pro, un quinto posto e un quarto posto. Ci sono meriti indiscutibili di Bergamin e ce ne sono pure di Bonetto. Ci sono stati errori da entrambe le parti dovuti prima di tutto all’inesperienza ad alti livelli. Mi sembra, però, che sinora dagli errori si sia cercato di imparare e questo è un aspetto molto importante. Chiedete a un qualsiasi amministratore d’azienda quante difficoltà hanno le imprese che non hanno un socio con una maggioranza assoluta o che hanno al proprio interno un azionista di minoranza forte. Nel mondo industriale veneto (e più in generale italiano) la convivenza è quasi impossibile, figuriamoci nel mondo del calcio, dove non ci sono esempi di club che viaggino in multiproprietà oltre il piccolo cabotaggio. Insomma, non mi soffermerei troppo sul tentare a tutti i costi di mettere contro Bonetto e Bergamin, perché resto convinto che i due in fondo si stimino dal punto di vista professionale, pur nella differenza caratteriale e di vedute gestionali e che siano serviti l’uno all’altro. Non era più possibile andare avanti assieme, almeno secondo gli equilibri del recente passato e giustamente i due hanno deciso di tagliare la testa al toro, lasciando che Bonetto rilanciasse. Non è un disimpegno totale, perché Bergamin non esce del tutto di scena e quell’invito di Bonetto consegnato in conferenza “Ti aspetto Bepi”, assomiglia a una porta aperta pure per il futuro, da capire con quali eventuali coordinate. In definitiva, va ringraziato Bergamin per quanto ha fatto e farà e va ringraziata pure la famiglia Bonetto per essersi assunta una responsabilità pesantissima e importante.
Per la prossima stagione valgono sempre le consuete regole: rispetto dei ruoli e fiducia, pazienza e capacità di scegliere bene il nuovo allenatore, mettendo insieme tutta una serie di ingredienti (evitando un bis modello Brevi con una figura che non è stata capace di aggraziarsi nessuno, andando allo scontro con tutte le componenti dell’ambiente anche al di là dei risultati) e, allo stesso tempo, scegliendo senza farsi condizionare troppo dalla tifoseria. Quanto al settore giovanile, ribadisco una domanda: quali risultati ha dato negli ultimi quindici anni? Quanti giocatori sono arrivati in prima squadra partendo dalle giovanili e hanno costituito un capitale per la società? Chi ricordiamo fra i giovani lanciati e che abbiano fatto davvero strada nel calcio che conta partendo da Padova e arrivando in Serie A? Per questo bisognerebbe cominciare a mettere in discussione figure che in quindici anni hanno portato ben poco a questa società rispetto alle risorse investite, dare un taglio netto al passato e scegliere una politica che abbia un senso rispetto alla categoria in cui si compete. Non si capisce perché, se tutto attorno in Veneto, in Friuli e in Lombardia, in Lega Pro si spendono se va bene 500mila euro per il vivaio, a Padova se ne debbano spendere più del doppio. Si può coltivare il futuro senza penalizzare il presente, perché l’aspetto più importante rimane senza alcun dubbio la prima squadra e il levarsi dalle secche della Lega Pro. Poi c’è la questione stadio, un nodo imprescindibile come accade pure altrove (vedi Venezia) per disegnare un futuro migliore. L’augurio è che si trovi una soluzione condivisa dopo le elezioni amministrative (comunque andranno ci sarà un sindaco vicino al Calcio Padova e questo non è poco, vista l’aria viziata circolata per tanti, troppi anni) e che magari permetta a chi investe nel calcio di avere anche un qualche ritorno economico. Altrimenti sì, che potrebbero presto arrivare sul serio tempi cupi. L’epoca dei mecenati è seppellita da tempo, chi amministra dovrebbe capire che il successo del pallone cittadino non deve essere vissuto con fastidio, ma con orgoglio e senso di appartenenza. Perché nobilita e dà lustro a tutta la città, come qualsiasi altro sport (pallanuoto o rugby che sia). Come da troppo tempo non accade, almeno per la Padova del Rocco che fu.