Ogni tanto mi fermo a pensare quanto sia cambiato il Padova rispetto agli eccessi dell’era Cestaro (i cui effetti il tempo ha dimostrato quanto fossero dirompenti e distruttivi, meglio non dimenticarselo mai). Oggi ci sono due soci che hanno disponibilità economiche inferiori, ma che hanno saputo scegliere (non senza difficoltà) una figura di direttore generale capace di mediare fra le diverse esigenze e di far funzionare il club. Detto che le somme vanno tirate alla fine, si può dire che per il momento la scommessa è stata vinta, in barba a chi aveva già bocciato la svolta in estate senza nemmeno attendere alla prova dei fatti come sarebbe andata a finire. Terzo posto in classifica, deciso miglioramento rispetto allo scorso anno, spese tenute sotto controllo senza trascurare la qualità, rendimento in linea con gli obiettivi estivi. Lo è “per ora”, lo sottolineo, perché le cose possono cambiare in meglio, ma anche in peggio.
Non ho la sfera di cristallo e non so se il Padova riuscirà a centrare il primo posto. So, però, che la Lega Pro è un bagno di sangue finanziariamente parlando e che provo un misto di rabbia e di sconcerto ogni volta che leggo, a qualsiasi latitudine, “che la società in realtà non vuole la promozione”. Un’assurdità bella e buona, considerato che una gestione virtuosa e un bilancio quantomeno in pareggio è possibile soltanto dalla Serie B in su. Per cui è vero che più si sale e più si spende, ma è altrettanto vero che si riceve infinitamente di più sotto il profilo dei contributi. E ancora: è molto più difficile una promozione dalla Lega Pro alla Serie B che dalla Serie B alla Serie A. Prima di tutto perché i posti disponibili sono meno (1 per girone, più 1 tramite i playoff) e poi perché la competizione è spietata, con una serie di nobili decadute che competono per il traguardo massimo senza esclusione di colpi.
Vorrei anche aggiungere che, nel corso degli anni, ho decisamente cambiato idea a proposito dei continui paragoni fra provincia e grandi città, fra la malagestione di piazze con più seguito, più storia e più tradizione e il “miracolo” delle piccole realtà. Detto che, in questa sede, non è assolutamente mia intenzione mettere in discussione la bravura di dirigenti come ad esempio Stefano Marchetti o Giovanni Sartori, che hanno creato per anni due squadre come Cittadella e Chievo capaci di raggiungere risultati impensabili, col tempo mi sono convinto che sia molto più complicato fare calcio in una piazza come Verona, Padova, Brescia, Bergamo, Modena e la stessa Venezia che sta riguadagnando terreno dopo anni di fallimenti e di tremendi crolli rispetto che al Sassuolo, al Chievo, al Cittadella, all’Entella, al Bassano, al Pordenone. E mi spiego: la gestione di una società di calcio non è soltanto la capacità di tenere i conti a posto e di scovare i migliori talenti, cosa che i vari Marchetti, Sartori, Giuntoli, Seeber hanno saputo fare sempre brillantemente. Ma sono anche e soprattutto le pressioni della piazza, i rapporti con i tifosi, la capacità di tenere la schiena dritta, eccetera, eccetera. Tutte componenti che rendono decisamente più semplice lavorare in provincia, dove nella peggiore delle ipotesi se perdi tre partite qualcuno mugugna su facebook, mentre in città magari scattano contestazioni, finisce in discussione l’allenatore e si alza un polverone che rende tutto più complicato. Del resto lo ha ammesso recentemente lo stesso Renzo Rosso, che in provincia si vive più tranquilli, fino a Giorgio Squinzi che ha scelto la serena Sassuolo anziché Modena o Reggio Emilia, piazze storiche dove le aspettative sono molto più elevate.
Per questo ammiro ancor di più Giuseppe Bergamin e Roberto Bonetto, molto distanti fra loro come modo di fare e di pensare, eppure capaci in un modo o nell’altro di convivere ormai da tre anni e con risultati che possiamo definire eccellenti: l’uno serve all’altro, al di là di come la si possa pensare. Ad esempio hanno dato pieni poteri a un direttore generale come Giorgio Zamuner, che ha difeso Oscar Brevi contro tutti nel momento più difficile e ha cambiato una tradizione che a Padova ormai era quasi una consuetudine. Intendiamoci: talvolta è anche giusto cambiare allenatore, come lo scorso anno quando Giuseppe Pillon sostituì Carmine Parlato, ma non è detto che debba per forza di cose sempre essere l’unica cosa da fare. Chi mi legge sa come la pensavo in quel momento, ma adesso la situazione è radicalmente cambiata. E dirò di più, è cambiata secondo me anche perché si è arrivati a un passo dallo strappo e tutti si sono sentiti maggiormente responsabilizzati. Brevi magari non sarà l’allenatore più spettacolare e bravo della Lega Pro, ma ha un merito innegabile e importantissimo, quello di aver creato un gruppo di ferro: di solito nel calcio, quando il gruppo è solido, si arriva lontano.
Capitolo mercato: anche qui il segno dei tempi che cambiano. Anziché rincorrere il grande nome o giocatori che magari avrebbero avuto bisogno di un mese per tornare in forma, si è puntato su due giocatori pronti come Berardocco e De Cenco. Due operazioni molto intelligenti che aggiungono qualità a un organico che, nel frattempo, ha perso Filipe. A proposito di quest’ultimo: degno di lode il suo gesto di stracciare il contratto e di rinunciare a un ricchissimo biennale (era il giocatore più pagato della rosa), ma non è neppure giusto trasformarlo in un eroe. Il brasiliano ha reso ampiamente al di sotto delle sue possibilità anche per motivi non strettamente fisici o legati all’infortunio, ma ricordiamoci che è stata una delle zavorre maggiori che Brevi ha dovuto fronteggiare nel corso del girone d’andata. Perché Filipe non era uno qualunque, ma avrebbe dovuto essere il faro del centrocampo. Se n’era reso conto lui stesso e se n’è andato da signore, finendo nella Serie D brasiliana. Evidentemente qualcosa che non funzionava c’era, se l’epilogo è stato questo. Ora, per dare un 10 a Zamuner e alla società, mancherebbe l’ultimo ritocco. Mi sbilancio ancora, come avevo fatto in estate con Tavano, dicendo che non prenderlo era la cosa giusta da fare dopo aver toccato con mano l’evoluzione della trattativa. Che dimostrava, a mio avviso, come il giocatore non avesse più nulla da dare e non avesse le motivazioni giuste per Padova (uno sguardo a quanto fatto nel Prato lo conferma). La ciliegina di gennaio sarebbe Caetano Calil: in caso di partenza di Germinale, il Padova prendendolo si garantirebbe un talento vero, non troppo in là con gli anni e che sarebbe il successore ideale di Neto Pereira. Con il capitano che ha compiuto 38 anni, se le cifre diventassero abbordabili, Calil sarebbe il miglior modo per conciliare esigenze presenti e future. Calil, del resto, ha già scelto Padova come lo aveva fatto De Cenco, il tutto mentre Emerson e Neto Pereira lo aspettano e la storia col Catania è già chiusa da tempo. Senza motivazioni, questo lo si può intuire per esperienza, i brasiliani si trasformano nell’ombra di loro stessi. Ma se hanno quelle giuste, allora possono farti fare il salto di qualità. Trascinando tutti in una spirale positiva di risultati ed entusiasmo che potrebbe portare lontanissimo.