Padova, Simonini: “L’Appiani era incredibile, arbitri e avversari si facevano condizionare. L’Euganeo, invece…”

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Di Padova e del Padova ho un ricordo particolare: lo Stadio “Appiani”. Da ragazzino, quando la spensieratezza era il fine di ogni giornata, la domenica sera la Rai trasmetteva le immagini di alcune partite di serie B e quando c’erano quelle dello Stadio “Appiani” non erano mai banali.

Costruito nel 1924 in onore di Silvio Appiani, giocatore biancoscudato morto nel 1915 a soli 21 anni, lo Stadio “Appiani” non era un impianto sportivo come gli altri e da qui quel fascino che me lo faceva sognare nei giorni successivi. Adriano Bardin, intervistato tempo fa per “Mi ritorni in mente” versione Vicenza, mi descrisse l’entrata dal tunnel degli spogliatoi al campo come una bocca di un leone che ruggiva sempre più metro dopo metro, con il pubblico che iniziava a far tremare le strutture interne. Definito “la fossa dei leoni” per l’effetto coinvolgente che aveva il pubblico sui giocatori che entravano in campo che subito si trovavano la gente a pochi passi. Piccola struttura contenente ventimila posti, era fatto all’inglese, senza pista di atletica e questo lo rendeva ancora più caldo e passionale, divenendo il dodicesimo uomo in campo.

Quando pioveva l'”Appiani” diventava ancora più magico: sugli spalti tra ombrelli e k-way, i colori erano tanti e l’occhio quasi si perdeva tra il campo e le tribune. Quando il Padova segnava si creava un caso più unico che raro: un arcobaleno di colori con gli ombrelli che formavano una ola improvvisa e i k-way che finivano di suggellare quell’attimo.

Lo Stadio “Appiani” ha servito il Padova per settant’anni – chiudendo i battenti nel 1994 – lasciando spazio a quell’orrenda struttura chiamata “Euganeo” che ancora oggi lascia interdetti. Se prima il pubblico poteva essere il dodicesimo in campo, adesso si stenta a sentirlo.

Fulvio Simonini, attaccante scuola Atalanta, ha indossato la maglia biancorossa per due stagioni – dal 1987 al 1989 – disputanto 70 partite e segnando 23 gol. Alto circa 1,70, Fulvio fin dalle giovanili orobiche ha imparato tutti i trucchi di chi non è stato dotato da madre natura di un’altezza adatta ad essere un centravanti. Nell’intervista che ci ha concesso in esclusiva per il 90° appuntamento con “Mi ritorni in mente”, oltre a parlarci della sua esperienza a Padova, ci ha raccontato dei “circa quaranta minuti che ogni giorno si dedicavano alla tecnica individuale nelle giovanili dell’Atalanta. Oggi non so se i ragazzi ne fanno almeno mezz’ora in una settimana”. Sagge parole.

Fulvio, benvenuto all’appuntamento numero 90 con “Mi ritorni in mente”.

“E’ un piacere per me essere vostro ospite”.

In questa intervista faremo un viaggio nella tua carriera da calciatore, senza dimenticare l’attualità. Partiamo da quest’ultima. Giancarlo Antognoni, attuale Capo Delegazione della Under 21 in un recente intervento ha detto: “Quello che cercherò di insegnare ai ragazzi non sarà tanto come stare in campo, ma come comportarsi fuori”.

“Io credo che il ruolo di Antognoni, primariamente, non sia quello di seguire i ragazzi in campo. Credo che lui si riferisse al fatto che la gioventù di oggi non è più quella di una volta: avendo una figlia di 21 anni, capisco benissimo le sue parole e le difficoltà che si riscontrano su un campo di calcio. Sono figli di una società che abbiamo creato noi, dove si è più leggeri e c’è meno spirito di sacrificio. Ricordo che ai miei tempi, non vedevo l’ora di andare a fare allenamento, venivo dalla campagna e mi piaceva saltare, correre, invece adesso, non tutti lo vivono come un divertimento, ma come un diversivo. Ci sono molti mezzi di distrazione, creando una vita sedentaria che allontana il ragazzo da quello spirito adatto a fare il calciatore”.

Tutto questo poi, portandolo nell’ottica di una prima squadra, mette in difficoltà un allenatore a creare il famoso “gruppo”.

“Il discorso che facevo prima, risponde anche a questa domanda. Non mi piace generalizzare, però vivendolo sulla mia pelle (allena una piccola squadra, il Sacro Cuore, un quartiere di Padova, ndr) me ne accorgo subito: ci sono sette-otto che tirano per il calcio e altri che vengono esclusivamente perché il genitore paga la retta. Finché si gioca nel quartierino, va bene, però quando si va a giocare in un settore giovanile di un club importante, questo può diventare un ostacolo nell’esplosione di una carriera”.

Quello che manca maggiormente ai ragazzi di oggi sono anche le basi. Se un ragazzo di 18 anni arriva alle porte della prima squadra ed è carente, faccio un esempio, sulle diagonali difensive, è difficile che possa impararlo proprio ora.

“Purtroppo abbiamo vissuto gli ultimi dieci anni dando la prevalenza al fisico. Mi capita di parlare con osservatori e questi mi dicono: “Sai Fulvio, chiamo un club e questi mi chiedono quanti anni ha. Gli dico quindici e un istante dopo aggiungono: quanto è alto?”. Io rimango interdetto: ti chiedi almeno se sa calciare un pallone o no? Siamo andati avanti a proporre la fisicità a discapito della tecnica e della tattica: massacriamo i ragazzi fisicamente, ma se finiscono a non saper fare una diagonale, capisci che le difficoltà crescono. Penso che gli allenatori oggi, sotto questo aspetto sono più che preparati, ma deve esserci la predisposizione dei ragazzi ad essere positiva. Purtroppo noto che c’è poca partecipazione e questo non va bene”.

Il ruolo del calciatore ti pone davanti ad un bivio: o fai il calciatore e accetti che il sabato sera di tanti ragazzi è divertimento mentre per te è in ritiro, oppure lasci perdere.

“Finché lo fai, quando sei un professionista, sai che fa parte del gioco. Il problema nasce quando hai 15-16 anni, vivendo in convitti: fanno gli allenamenti, studiano, questo sì è un grosso sacrificio. Quando diventi professionista, sei ben ripagato e il sacrificio lo fai anche molto volentieri”.

Allontaniamoci un attimo: non credi che l’aver esportato il prodotto inglese del calcio a tutte le ore del fine settimana abbia anche portato la gente ad allontanarsi dallo stadio, vissuto come luogo di aggregazione?

“Non credo tanto sia questa la ragione principale. Ho girato mezza Europa quando lavoravo per la Juventus come osservatore, ed ho trovato stadi all’avanguardia, proprio perché all’estero hanno compreso che la casa di un club è la base da dove partire. Noi siamo ancora fermi agli impianti di “Italia ’90” e le brutture che sono state costruite, con stadi che cadono a pezzi. Metti il fatto che le televisioni ti fanno vedere la partita direttamente a casa, in poltrona, invece che a zero gradi allo stadio, ti rendi conto che tante situazioni si sono estremizzate. Una volta, quando giocavo io, c’era solo “Novantesimo Minuto” e la gente non vedeva l’ora che finisse la partita per andare a vedere le immagini delle partite. Era quasi un rito religioso. Adesso dopo neanche dieci minuti hai tutto quello che vuoi”.

Cosa ti ha tolto il calcio?

“Più che togliermi, mi ha dato tantissimo: ho realizzato il sogno di ragazzino e sono uno dei fortunati che ci è riuscito. Se devo rispondere alla tua domanda, è chiaro che mi ha tolto un po’ di adolescenza. Vivevo in collegio e non ho fatto certamente una vita da adolescente come tutti. Però se devo fare un sunto, credo che il calcio mi ha più dato che tolto”.

Più rimpianti o più rimorsi nella tua carriera da calciatore?

“Sono uno che preferisce avere dei rimorsi nella sua vita. Relativamente al calcio, credo di avere più rimpianti. Avrei potuto fare una carriera più corposa e gratificante, forse non ero maturo abbastanza. Alla fine credo di aver fatto una discreta carriera e mi accontento”.

Tu come tanti protagonisti che sono passati per “Mi ritorni in mente” ci parli di “mancanza di maturità nel momento decisivo della mia carriera”. Ogni volta che si poteva salire lo scalino decisivo per entrare nel calcio dei grandi, è mancato sempre qualcosa.

“Sono un classico esempio e in tanti me lo dicono ancora oggi: “Con le tue qualità avresti potuto fare molto di più”. Allo stesso tempo ne conosco tanti che in base alle loro caratteristiche avrebbero potuto fare molto di più. Non c’è una risposta univoca a questa domanda. Una parte di responsabilità è mia. Ci sono anche situazioni di mercato che ti portano a giocare in una squadra invece che in un’altra e questo non dico che ti preclude palcoscenici importanti, ma certamente non le agevola. Io, come tanti, non dico che ho vissuto ai margini della serie A, giocando in prevalenza in B. Sono stato sfortunato perché, che so, il giocatore Tizio se andava in quel club era in prestito, mentre io ero un costo e questo rientra in una serie di tasselli che poi portano alla tua domanda: lo scalino sembra scalabile, ma non lo è. E non sempre dipende da te”.

Le tue parole mi fanno pensare a quelle di Roberto Donadoni. L’ex tecnico del Parma, attualmente senza panchina, parlando del calcio italiano e della vicenda che ha vissuto con i ducali ha utilizzato parole importanti: “Calcio ingrato”. Vecchi romantici ritornano?

“Credo che la vicenda che ha vissuto Roberto a Parma sia stata molto forte, in particolar modo dal punto di vista umano, però penso che lui paghi l’essere una persona molto schiva e poco personaggio, mentre nel calcio attuale devi vivere di pubbliche relazioni. Il mondo degli allenatori è ancora peggio: se uno vince un campionato ed è in scadenza di contratto, fa fatica a trovare squadra. Se viceversa uno retrocede, la trova subito. Dipende sempre da procuratori, giri di denaro, un sacco di circostanze. E torniamo alla situazione di Roberto, che dopo aver vissuto quel che ha vissuto, si trova a casa”.

Tu come Roberto hai vissuto l’esperienza nelle giovanili dell’Atalanta. Cosa ti ha insegnato maggiormente?

“Ti posso parlare ovviamente della mia esperienza e posso dirti che all’epoca l’Atalanta era uno dei club all’avanguardia per quanto riguarda il settore giovanile. Avevo 14 o 15 anni, adesso non ricordo bene, c’erano tre quattro squadre che mi volevano e io rifiutai perché volevo imparare nel settore giovanile orobico. Credo molto nei settori giovanili e il nostro sistema calcio ha difficoltà a tirar fuori talenti, preferendo prendere uno straniero, piuttosto che farselo in casa. Cosa mi ha insegnato? Loro curavano tantissimo la tecnica. Io sono alto 1,70 e mi hanno insegnato a sopperire alle mie mancanze, cercando di sfruttare i vantaggi, tra cui la velocità. Ero bravo tecnicamente, perciò hanno esaltato queste mie caratteristiche. Chiaro che non potevano dirmi di andare in area di rigore e fare la guerra con difensori che mi avrebbero sovrastato fisicamente, ma cercando di aggirarli e sfruttare al tempo stesso il vantaggio della mia velocità e trovare i loro punti deboli. Ogni giorno c’erano minimo quaranta minuti di tecnica individuale, cosa che oggi non so se i ragazzi svolgono”.

Arriviamo al cuore dell’intervista: il mitico “Appiani”.

“Per me è uno degli stadi più belli dove ho giocato. Ero uno stadio che ti dava un’emozione unica, perché eri praticamente in un catino. Tu entravi da quel tunnel e ti trovavi quella muraglia umana che sembrava ti potesse inghiottire. Paura no, però credo che l’avversario e gli arbitri si facessero condizionare. Questi ultimi erano molto rigorosi, ma arbitrare in quelle condizioni non era per loro molto semplice. Mentre l'”Euganeo” è l’esatto contrario, dove non c’è più quel calore di una volta. Se prima venivano ventimila persone, ora al massimo sono quattro-cinquemila. In più sono lontani cinquanta metri dal campo e fai fatica a sentire il dodicesimo uomo in campo. Fortuna che qualcuno ha pagato per come è stato costruito l'”Euganeo” e se mi permetti la battuta, credo che solo per come è stato fatto, fosse giusto che qualcuno pagasse”.

Il gol più bello che hai fatto con la maglia del Padova.

“Contro l’Ancona, vincemmo 3-0 e feci doppietta. Scambiai palla con un compagno e mi trovai al limite dell’area di rigore, presi bene la palla e questa andò ad infilarsi sul palo lungo. Non segnavo spesso da fuori, ero più uno che segnava in area di rigore”.

Padova è caduta, ma ha avuto la forza di rialzarsi fin da subito e la riconferma di Carmine Parlato è un atto dovuto.

“Sì, credo che dopo aver vinto un campionato fosse giusto riconfermare il tecnico della promozione. A dire il vero il Padova aveva uno squadrone, ora diventa difficile. L’anno scorso sono partiti tra mille difficoltà e tanti punti interrogativi, però quando metti un tot di denaro, non dico che fai presto a vincere, ma sulla carta si vedeva che era la più forte. Adesso come adesso, il fatto che il Brescia non sia nel nostro girone, può essere un vantaggio”.

Pensi che con una programmazione seria Padova possa tornare a spiccare il volo? Non diciamo serie A, ma una buona Serie B è auspicabile?

“Non è facile. Si tratta di una società nuova che al primo anno ha vinto: è giusto non mettere pressione alla dirigenza, allo staff tecnico e i calciatori. Purtroppo a Padova si fa questo errore, però ci vuole molta pazienza e stare vicini a questa squadra. Cercare di evitare le critiche inutili, tifando positivamente”.

Prossimo appuntamento con “Mi ritorni in mente”: domenica 30 agosto 2015.

Scritto da Daniele Mosconi, Tuttolegapro




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About Dimitri Canello

Direttore responsabile del sito web Padovagoal. Nato a Padova l'11 ottobre 1975, si è laureato nel marzo del 2002 in Lingue Orientali con la specializzazione in cinese. Giornalista professionista dal settembre 2007, vanta nel suo curriculum numerose esperienze televisive (Telemontecarlo, Stream Tv, Gioco Calcio, Sky, La 7, Skysport24, Dahlia Tv, Telenuovo, Reteazzurra, Reteveneta, Telecittà), sulla carta stampata (collaborazioni con Corriere dello Sport, Tuttosport, Corriere della Sera, Repubblica, Il Giornale, World Soccer Digest, Bbc Sport online, Il Mattino di Napoli, Corriere del Veneto) e sui media radiofonici (RTL 102.500, Radio Italia Uno)

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