Fonte: Mattino di Padova, Francesco Cocchiglia
Vincere ha sempre un sapore speciale. Vincere due volte è un’enorme soddisfazione. Farlo in quella che senti la tua città – anche se in realtà non lo è in tutto e per tutto – riempie di orgoglio. Davide Sentinelli è arrivato ad otto promozioni, capitan Marco Cunico a cinque, ma nessuno di loro può vantarsi di aver fatto il “bis” con la maglia biancoscudata. Nessuno tranne Dan Thomassen, il danese che parla dialetto veneto: allevato dal Padova agli albori della carriera, nell’anno della promozione targata Franco Varrella, è tornato all’Euganeo per riportare in alto il Biancoscudo. E c’è riuscito, con sua grande gioia: «Bello, confuso, tutto davvero entusiasmante», racconta. «Della mia prima promozione, quella ottenuta a Bolzano, ricordavo l’invasione di campo e lo stadio piccolo, che ci aveva aiutato a sentirci ancora più uniti ai tifosi. Beh, a Legnago è stato lo stesso: la grande confusione, la gioia, e il momento bellissimo nel quale, dopo l’invasione di campo, finalmente si riesce a vivere la festa fisicamente insieme ai tifosi».
Due promozioni a distanza di 14 anni: stesse emozioni? «Assolutamente no, avere 14 anni in più mi ha permesso di vivere l’annata stessa in maniera diversa: oggi, rispetto ad allora, devo ammettere che me la sono goduta ancora di più. Per me ha un sapore ancora più particolare perché mai avrei pensato di tornare qui, né tantomeno di vincere un campionato con il Padova. Se mi sentivo un po’ in debito con Padova, che mi ha accolto quando ero un ragazzino e mi ha regalato una bellissima famiglia, ora posso dire di aver restituito qualcosa. E questo mi fa enormemente piacere». Qual è stata, delle due, la promozione più difficile? «Senz’altro quella di quest’anno. Le differenze sono notevoli, a cominciare dal fatto che la Serie C/2 del 2001 era un campionato importante, con squadre agguerrite e un calcio di altri tempi. Questa Serie D, tuttavia, è stata più difficile perché sin dalle prime battute si era capito che il Padova aveva sulla carta qualcosa in più rispetto alle altre, e siccome nel calcio non sempre le prospettive sono sinonimo di risultati sicuri non è stato affatto facile, a maggior ragione se consideriamo tutte le difficoltà con cui si era iniziato questo percorso. Aver inflitto 13 punti di distacco all’unica avversaria che poteva impensierirci è un dato che parla da solo».
Il Padova di allora contro il Padova di adesso: cosa c’è di diverso? «Quest’anno nello spogliatoio c’è stato un gruppo più “classico”, con qualche personalità particolare, ma nel complesso con un buon insieme di persone». Chi è il Centofanti di oggi? «Nessuno, perché uno come lui non mi è mai più capitato di incontrarlo. Felice era un tipo pazzo ma buono, difficilissimo da inquadrare in una categoria precisa: colorato, imprevedibile, che faceva morire dalle risate. Di fondo, però, ha sempre difeso la squadra: era un pazzo, ma i suoi compagni venivano sempre prima di tutto». E se andava sopra le righe c’era Andrea Bergamo a riportarlo sulla terra. C’è stato un altro Bergamo quest’anno? «Questo sì, ed ovviamente mi riferisco a Marco Cunico. Ha fatto il vero capitano, il giocatore che c’è anche quando non gioca. Una persona che dice quel che pensa, che quando si prende le sue responsabilità in campo e fuori lo fa con grandissima naturalezza. È un ruolo che gli sta molto bene addosso». La dedica? «Essendo uno che segna poco, non ho mai niente da dedicare a qualcuno, finalmente posso farlo. E il pensiero va naturalmente alla famiglia, a mio figlio Christian e soprattutto a mia moglie Michela. È lei che ormai da tanti anni, quasi 15, vive il mio lavoro: è venuta in Danimarca, mi ha seguito in Norvegia, e dopo sette anni è tornata a casa. Sono sicuro che anche lei l’ha vissuta molto intensamente».