Nel luminoso androne della grande casa madre, tutta putrelle ardite e vetrate d’architettura, c’è una vecchia – meglio dire: antica – bici, di quelle con i portapacchi davanti e dietro, pesanti come carri attrezzi. Adesso è tirata a nuovo, con i suoi cerchi e i suoi fanali cromati, con la sella senza un segno e i copertoni che odorano di gomma fresca. Marcello Cestaro, il signor Famila, ma tantissime altre cose ancora, ci sale sopra con agilità insospettata: è pur sempre classe 1938. Tira i freni, l’accarezza un po’, sorride di tenerezza: «Questa è sacra. In fondo, è con questa che abbiamo cominciato a pedalare, noi Cestaro. In tutti i sensi».
E allora cominciamo proprio da qui, chi ce lo vieta.
«Per la verità, il rigoroso punto d’inizio risale a qualche tempo prima».
Un altro passo indietro, allora.
«L’inizio è papà Antonio. Nato nel 1908, uno tra dieci fratelli, famiglia contadina. A 14 anni, nel 1922, suo padre raduna la famiglia e dice più o meno così: abbiamo finito tutto, sono finiti anche gli ultimi pollastri. Non c’è più niente. Io non so come sfamare tutte queste bocche…».
Succede dunque che.
«Che a 14 anni mio padre si ritrova mandato a Schio, in casa di un piccolo commerciante di alimentari. Quello lo manteneva, lui in cambio doveva aiutarlo nelle consegne, con il carretto. Nel patto, altro che Co.Co.Co., l’impegno a tenere i cavalli. Tant’è vero che doveva dormirci assieme, nella stalla».
E poi?
«E poi è una classica storia italiana, di tanti nostri vecchi, coraggiosi e instancabili. A 17 anni un negoziante che lo vedeva così bravo e intraprendente gli propone di mettersi in proprio: tienila tu, un po’ di roba, e poi la consegni ai vari negozi. Ma io non ho una lira, fa lui. Ti do una mano io, lo invoglia l’altro. È così che il papà comincia l’attività di commerciante grossista. Nel ’48, dopo la guerra, ha il suo primo magazzino, nel retrobottega di un cliente. È in quel periodo che per spostarsi si prende questa bici. Ha idea di quanti chilometri e quanta fatica c’è su questa bici?».
Una mezza idea dovremmo averla tutti, noi italiani d’oggi: per capire da dove veniamo, e magari anche per riprendere a pedalare.
«Io e mio fratello Mario, lui del ’42, ci siamo praticamente ritrovati a crescere con l’attività di famiglia. Qualche studio l’abbiamo fatto, lui più di me, è il ragioniere e tiene i conti, ma ogni minuto libero, fin da bambini, era usato per dare una mano. Caricare merci, scaricare, consegnare. I soldi non crescono sulle piante, creda mica».
Vogliamo passare subito al lieto fine?
«Il finale per fortuna non c’è. Ancora oggi, ogni giorno, bisogna ripartire da capo. Se mi chiede a che punto siamo arrivati, possiamo fare una sintesi veloce. Nel tempo, a partire dal boom degli anni Sessanta, con i primi accenni di grande distribuzione, abbiamo messo su un mattone per volta. Ci siamo uniti con gli altri per fare grandi gruppi di acquisto e spuntare prezzi migliori dai produttori. Abbiamo lanciato linee che la gente ricorderà, come la A&O. Fino al ’69, quando in famiglia abbiamo fondato la Unicomm, che è un po’ la madre e la cassaforte di tutte le attività. Più avanti, infine, abbiamo acquisito dai tedeschi il diritto di usare il marchio Famila in Italia…».
Adesso avete un impero.
«Non stiamo a farla lunga con i numeri. Riassumendo: contiamo su 230 punti vendita, dagli ipermercati ai Cash and Carry. Siamo presenti in sette regioni italiane, con un fatturato che supera i due miliardi. Ma soprattutto diamo lavoro a oltre settemila italiani».
Tutti conoscono Caprotti e l’Esselunga, ma nemmeno voi scherzate.
«Con Caprotti abbiamo anche collaborato, unendoci per iniziative strategiche. Ma è soprattutto un’altra la storia che ci accomuna…».
Provo a dire: Coop.
«E bravo. Non è un’ossessione del Caprotti, sa? Niente da dire sul lavoro delle Coop, non è questo il punto. Molto da dire invece sulle condizioni in cui ci troviamo a lavorare».
Me lo fa un esempio concreto?
«Semplicissimo. Se la Coop decide di aprire un ipermercato a Bologna o a Reggio Emilia, ci mette un niente. Noi abbiamo comprato un’area a Bassano nel 1990. Lo sa quando abbiamo aperto ai clienti?».
Sparo: dieci anni?
«Ma mi faccia il piacere. La prima signora col carrello è entrata nel 2012. Ventidue anni di burocrazia, me lo crede? Poi mi vengono a dire che noi imprenditori italiani siamo dei piagnoni. Se quei quattro politici di Roma, tutti, di tutti i colori, soltanto capissero che non serve molto: un po’ di regole certe, semplici, uguali per tutti. Allora hai voglia l’Italia…».
Eppure lei e suo fratello nell’Italia continuate a credere.
«Guardi, né io, né lui abbiamo la barca. Non abbiamo mai imparato a sciare, a giocare a tennis, non parliamo del golf. Siamo qui venti ore al giorno, ancora oggi. Sabato e domenica compresi, chiaramente».
Chiaramente.
«Le aziende vanno amate e curate, altrimenti addio. Noi andiamo in giro anche per i nostri punti vendita, bisogna vedere sul posto cosa va e cosa non va. Stiamo attenti ai prezzi, ma consideriamo sacra la qualità».
E tutto questo per?
«Mica per avidità. O per essere ancora più ricchi: alla nostra età, c’è tutto quel che serve. Ma no: si va avanti pensando a loro, ai giovani, al domani. Noi abbiamo già in azienda i nostri figli (tre io, due mio fratello, anche se una figlia sua preferisce starsene a Milano lavorando nella moda). Già sta crescendo la quarta generazione, con sei nipotini. E poi ci sono gli altri, tutti gli altri».
Gli altri chi?
«Le oltre settemila famiglie che vivono del loro lavoro. Lei nemmeno se la immagina la soddisfazione di dare lavoro a tutta questa gente. Lavorare è bellissimo, mi creda. Dà soddisfazioni impensabili».
Sincero: mai licenziato nessuno?
«Sincero: mai. Ci è capitato di spostare qualcuno da un punto all’altro, in base alle congiunture dei mercati. Non sono sempre rose e fiori. Ma licenziamenti mai. Meglio: qualcuno sì. Quelli che rubavano. Solo quelli».
Non per fare il menagramo, ma le grandi imprese familiari – a cominciare dai Caprotti – spesso rischiano di mandare tutto all’aria per implosione domestica.
«Posso solo dire come facciamo noi: compiti ben precisi, senza pestarsi i piedi. E fuori di qui, vite separate».
Ma non mi dica che con suo fratello non ha mai litigato furiosamente…
«Mai. O forse sì, una volta: quando io mi sono messo in testa di rifare il grande Padova, di calcio. Lui mi diceva lascia perdere, cosa andiamo a cercare. Sì, abbiamo discusso. Alla fine aveva ragione lui: ci abbiamo lasciato parecchi milioni, nel giochetto. Il calcio è così: se non avesse i giocatori, i procuratori e gli arbitri, sarebbe fantastico».
E questa Italia dove finirà?
«Questa Italia va dove la portano i politici. Noi possiamo solo fare ciascuno la propria parte al proprio posto. Tutti quanti. Inventandoci ogni giorno qualcosa».
E voi che vi state inventando?
«È una scommessa. Sull’Italia. Abbiamo venduto a un fondo straniero (Orion, inglese) dei nostri immobili. Ci ritroviamo con duecento milioni freschi in mano. Potremmo metterceli in tasca e spenderli al casinò, oppure andare a vivere di rendita in qualche isola tranquilla e soleggiata…».
Invece?
«Invece non se ne parla neppure. All’estero ci si va, ma in vacanza. Si investe in Italia, a costo di passare per scemi. Qui, nel nostro Paese, con la nostra gente. Apriremo altri dodici centri commerciali entro il 2016, assumendo altre ottocento persone. Il mio sogno vero è questo: portare i 7.200 dipendenti, prima o poi, a 10mila».
In pieno periodo nero di calo dei consumi.
«Sì, proprio di questi tempi. Ma a vincere facile sono capaci tutti».
E com’è che nonostante tutto questo nessuno vi fa altarini tra i Vip italiani?
«Guardi, noialtri siamo Vip alla nostra maniera. Per noi, Vip ha un solo significato: Vecchi imprenditori pensionati. Ma ancora qui a pedalare, sempre, tutti i giorni, ostrega ».
Fonte: Il Giornale