Padova, Gastone Zanon compie 90 anni: “Sono arrivato a pesare 38 chili, ho rischiato grosso. Ma prima di morire vorrei vedere l’Appiani com’era una volta…”

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Zanon

(red. – Vi proponiamo di seguito la bellissima intervista realizzata per “Il Mattino di Padova” da Stefano Volpe a Gastone Zanon, che oggi taglia il traguardo dei 90 anni. L’intera redazione di Padova Goal rivolge i propri migliori auuri di buon compleanno al grande giocatore biancoscudato).

Oggi è un giorno speciale non solo per il calcio padovano, ma per l’intera città. Gastone Zanon compie 90 anni. Siamo andati a trovarlo e abbiamo aperto assieme a lui l’album dei ricordi. Zanon, tanti auguri. Come ci si sente a 90 anni? «Se me l’avessero detto da giovane, mi sarei fatto una risata. Arrivare a 90 anni sembrava impossibile. E invece sono felice di essere qua, anche se, lo affermo con un pizzico di ironia, noi vecchiotti rappresentiamo un peso per l’economia di una società in crisi». Ragiona ancora da imprenditore… «La vedo male quest’Italia, stiamo affondando. Ci sono sempre più giovani laureati che non trovano lavoro. Ma sa cosa le dico? Questo Renzi non mi dispiace, fatelo lavorare». Parliamo di salute: come sta? «Bene, anche se me la sono vista brutta. Il 31 dicembre 2012 stavo camminando in centro, di fronte a me vedo un amico che mi viene incontro e, scherzando, finge di dribblarmi. Faccio una finta anch’io ma il piede si pianta, cado e mi rompo il femore. Mi operano dopo 4 giorni, ma passano un paio di settimane e sento dolore, si erano staccati i chiodi. Sono costretto a rioperarmi, sto ancora male, da 70 chili arrivo a pesarne 38. Credevo di morire, invece ho resistito, a luglio 2013 ho subìto una terza operazione, mi hanno messo una placca in ceramica. Ho detto al chirurgo: me la faccia blu, che s’intona con le piastrelle del bagno! Credo che l’essere stato un atleta, a livello fisico e mentale, mi abbia aiutato molto a resistere in quei mesi difficili. Ora ho ritrovato il peso-forma e devo solo camminare con il girello». Come diventa atleta? «Negli anni ’30 si giocava a calcio in patronato, il sabato, dopo la scuola di religione. Io frequentavo la parrocchia del Carmine, poi sono andato a giocare all’Audax. Qui mi nota Vittorio Bonin e mi porta a Padova nel 1938, dove entro a far parte della squadra ragazzi. Ero ambidestro, ho sempre giocato terzino sinistro. Mi allena Mariano Tansini, un grande, il primo tecnico che abbia mai visto usare la lavagna. Peccato aver perso due anni importanti, ad inizio carriera, per colpa della guerra». Che ricordi ha della guerra? «Non sapevamo nulla di quello che stava succedendo. Il 16 dicembre 1942, data del primo bombardamento su Padova, sento dei rumori forti. Io e mio fratello Odone ci affacciamo al balcone della nostra casa di via Tasso. Vediamo un nugolo di aerei sopra la stazione, sotto di loro sembrava come ci fosse una fitta pioggia nera. Erano le bombe».

Il momento più intenso in maglia biancoscudata? «Le due sfide al Grande Torino nella stagione 1948/49. Sia il memorabile pareggio 4-4 all’Appiani che la gara dell’andata. Eravamo in vantaggio al Filadelfia fino a 15 minuti dalla fine, un’impresa. Poi Valentino Mazzola si tirò su le maniche della maglia e guidò la rimonta. Finì 3-1 per loro. Dopo il pareggio Mazzola mi voleva aggredire perché gli avevo fatto un fallaccio. Ma in quell’occasione ero innocente, ero scivolato sul fango». Picchiava molto, eh? «Io entravo sempre sulla palla, poi poteva capitare che prendessi anche le gambe (ride, ndr). La storia della linea, metaforica, che tracciavamo davanti l’area di rigore io, Scagnellato e Blason è vera. Dicevamo agli avversari: “Non provate a superarla”. Il più spaventato di tutti era Amadei, della Roma». Il suo rapporto con Rocco? «Splendido. Davanti alla squadra ci davamo del “lei”, in privato del “tu”, visto che quando io giocavo nei ragazzi lui era una mezz’ala della prima squadra e qualche randellata l’ho data anche al Paròn. Forse per questo mi ha fatto capitano. La sua forza era quella di essere un fine psicologo. Conosceva vita, morte e miracoli dei suoi giocatori. In più credo leggesse dieci quotidiani al giorno ed era informatissimo su tutti gli avversari. Aveva sempre la battuta giusta, uomo di una simpatia travolgente». Il rimpianto della carriera? «Ero stato convocato con la Nazionale universitaria per giocare alle Olimpiadi di Londra 1948. Grande squadra, c’era pure Boniperti. Pochi giorni prima di partire per l’Inghilterra muore mio suocero e torno a Padova. Rinuncio alla convocazione e per un anno porto avanti io l’officina che aveva mio suocero». È poi riuscito a laurearsi? «Studiavo ingegneria, ma non ce l’ho fatta. D’altronde, giocavo a calcio in serie B e nello stesso tempo lavoravo. Dal 1950 ho affiancato mio padre nell’azienda edile. Con il calcio guadagnavo bene, ma volevo costruirmi un futuro e portare avanti l’impresa. Rocco l’ha sempre capito e mi ha sostenuto».

Il compagno più forte? «Tecnicamente dico Humberto Rosa, tuttora un grande amico. Ma per temperamento e fisico Aurelio Scagnellato. Spesso lasciavo l’avversario e dicevo: “Lello, pensaci tu”. E lui lo fermava sempre. Difensore fantastico e uomo molto umile. Pensi che l’ho scoperto io, Scagnellato. Nel 1951 l’allenatore del Padova era l’inglese Frank Soo. Io facevo da traduttore perché ero l’unico che capiva un po’ la lingua, anche se i compagni mi prendevano in giro, visto che il mister faceva discorsi lunghi e io li traducevo in 4-5 parole. Dicevano facessi io la formazione. Soo mi chiese di accompagnarlo a vedere un giocatore della Luparense, tale Mazzuccato. Ma in quella squadra notai subito Scagnellato, e alla fine il Padova ingaggio Mazzuccato, Lello e anche il noto Vittorio Scantamburlo». L’avversario più forte? «Pepe Schiaffino. Quando affrontavamo il Milan, Rocco mi diceva di seguirlo anche in bagno, ma era impossibile. Si muoveva dappertutto, faceva anche il terzino e io non potevo superare la linea di metà campo. Mi ha fatto penare». Il suo finale di carriera fu amaro. «Venni squalificato sei mesi nel 1957 per una tentata combine di Legnano-Padova, ultima giornata di B del 1955. Una storiaccia, il giocatore del Legnano Zian parlò con il nostro portiere Casari, che prima della gara riferì a Rocco, ma il Paròn non volle saperne. Noi vincemmo, io non sapevo nulla, due anni dopo Zian venne da me, che ero il capitano, chiedendo i soldi. Non gli demmo niente, lui cinque giorni prima che il “caso” andasse in prescrizione denunciò tutto e mi squalificarono sei mesi per omessa denuncia. Non volli più giocare, ma mi allenai sempre con la squadra, che arrivò terza nel ’57».

Il rapporto con lo stadio Appiani? «È come un fratello per me, visto che fu inaugurato nell’ottobre del ’24 e io nacqui il mese dopo. In campo si sentivano urla e calore della gente, negli anni ’60 ho costruito io la tribuna est. Poi mi sono opposto alla demolizione. Ho un sogno: prima di morire vorrei vedere l’Appiani com’era una volta, con i 15 gradoni della tribuna. Spero che si sbrighino a fare tutti i lavori di ristrutturazione». Segue ancora il Padova? «Certo, da tv, giornali e internet. Mi piace andare sul web. Cestaro ha speso tanto e male, ora mi piace la nuova società e i nuovi giocatori mi sembrano forti e umili. Non come quelli della scorsa stagione, che hanno anche gettato le maglie a terra a Latina. Un gesto pessimo, ci fossimo stati io e Scagnellato non sarebbe successo».




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